Sulla rete Internet c’è un
computer della destra cattolica americana più tradizionalista. Contiene i
discorsi del pontefice, le descrizioni dei suoi viaggi e molti documenti del
magistero della Chiesa. Ospita anche due temi caldi per la cultura cattolica e i
suoi rapporti con la scienza: sono la questione Galileo e la questione di
Darwin.
Si tratta di due questioni brucianti
e non solo per i cattolici. Una bella citazione di Freud, a sua volta ripresa da
Gould, spiega il perché.
«Nel corso del
tempo l’umanità ha dovuto sopportare due grandi mortificazioni che la scienza
ha recato al suo ingenuo amore di sé. La prima, quando apprese che la nostra
terra non è il centro dell’universo, bensì una minuscola particella di un
sistema cosmico che, quanto a grandezza, è difficilmente immaginabile... La
seconda, poi, quando la ricerca biologica annientò la pretesa posizione di
privilegio dell’uomo nella creazione, gli dimostrò la sua provenienza dal
regno animale e l’inestirpabilità della sua natura animale» (S. Freud, Introduzione
alla psicanalisi, in Opere, vol. vii, Boringhieri, Torino 1976, p. 446).
La terza
umiliazione, suggeriva Freud, è venuta dalla psicanalisi stessa, la quale mette
in discussione la presunzione dell’uomo di essere un essere guidato
prevalentemente (se non esclusivamente) dal raziocinio.
Il trauma di
Galileo è stato superato e digerito. Dalla Chiesa, ma anche dal pensiero
moderno il quale, anzi, attorno ad esso si è incardinato. In fondo è successo
questo: che la grande narrazione sulle origini e i fini dell’umanità, fornita
dal pensiero religioso, è stata sostituita -nel pensiero laico moderno- da
un’altra narrazione con le stesse caratteristiche di globalità e di
autosufficienza, quella scientifica. In particolare, quella proveniente dalle
scienze esatte, matematizzate.
La scienza, nelle
sue versioni più estremistiche, ha teso a presentarsi come l’unica
spiegazione possibile e lecita. Anzi, di più che una
spiegazione, come l’unica e indiscutibile, perché scientifica, appunto.
L’emergere delle
scienze esatte e la loro egemonia hanno avuto innegabili pregi, che sarebbe
sciocco negare. Meno che mai sembra il caso di andare dietro alle suggestioni
anti-scientifiche o para-scientifiche che oggi vanno emergendo: nel pensiero
ambientalista, per esempio, ma anche in quello femminista.
Comunque sono
posizioni che legittimamente reagiscono alla tirannia delle scienze dure, che
fanno un bilancio critico delle promesse mancate, che mettono in dubbio la sua
stessa presunta razionalità. Le critiche riguardano:
·
la matematizzazione obbligatoria di tutte le scienze (c’è una
discussione accesissima, in proposito, tra gli ecologi-teorico-matematici e
quelli sul campo, più parenti dell’etologia all’aria aperta di Lorenz e di
Tinbergen);
·
gli «orrori» prodotti dalla scienza: siamo nel cinquantesimo
anniversario di Hiroshima, una ferita non sanata. Ma non solo il nucleare: si
mettono in discussione i danni materiali, l’incapacità di prevederli e
comuque la pretesa manipolatoria sulla natura.. Tra parentesi, anche questa è
una discussione non semplice: infatti, una volta escluse le idee utopiche e
fasulle del ritorno della natura allo stato di natura, qual è la differenza,
dove si situa la linea di confine tra un normale intreccio di specie per
produrre razze bovine migliori e la diretta manipolazione dei geni?
·
infine, anche dall’interno della scienza stessa, si registrano
violenti scossoni. Il primo fu rappresentato dalla rivoluzione della fisica
della prima metà del secolo (Heisenberg e il Principio di Indeterminazione), il
secondo dalle matematiche non lineari, più giornalisticamente chiamate «teorie
del caos».
Tra il
trauma-Galileo e il trauma-Darwin, tuttavia, una differenza c’è. Sia perché
è passato più tempo sia perché è stato possibile erigere dei recinti e degli
ambiti di competenza; nel caso della rivoluzione copernicana e galileiana, il
pensiero religioso si è, per così dire, chiamato fuori, saggiamente depurando
il messaggio rivelato dalle sue descrizioni metaforiche. Tra scienza e fisica,
per dirla grossolanamente, la convivenza è apparsa possibile, perché diversi
sono gli ambiti. Lo scienzato non pretende di avere nulla da dire
sull’esistenza di Dio, né sulla creazione, né sul futuro dell’uomo e,
viceversa, il pensiero religioso non sente più alcun bisogno di sentenziare su
come è fatto e come funziona il mondo fisico. Anzi, accoglie volentieri i
contributi della scienza, anche perché sovente essi descrivono la perfezione
del mondo e delle sue armonie.
Con Darwin e con
l’evoluzione, le cose si sono fatte più complesse. E non solo per quanto
riguarda il pensiero religioso, ma anche per quanto riguarda il pensiero laico e
positivista, il pensiero moderno. Il problema nasce dal ruolo importante,
pressoché decisivo, che l’evoluzione, nella versione darwiniana e poi in
quella della «sintesi evoluzionista» di questo secolo, assegna al caso.
Già prima di
Darwin, il primo tassello della teoria evoluzionista cominciava ad essere
accettato, per la forza dei fatti. Di fronte ai ritrovamenti sempre più
frequenti di fossili che non corrispondevano ad alcuna specie animale esistente,
cadeva, per forza di cose, ogni ipotesi «fissista», basata cioè
sull’immutabilità della specie, dal momento della loro comparsa (o creazione)
ai giorni nostri. Era indiscutibile che delle specie animali a noi ignote e
diverse dalle attuali erano esistite e poi scomparse, lasciando traccia solo nei
fossili. Così come, viceversa, non c’era traccia fossile di molte delle
specie attuali, che dunque andavano considerate nuove e recenti.
La contraddizione
con il racconto biblico veniva risolta o suggerendo che la scomparsa fosse
dovuta al Diluvio Universale e/o pensando a un processo di ripetuta creazione di
nuove specie, sempre da parte del Signore. Ma queste erano contraddizioni, per
così dire, minori, tra la lettera del racconto biblico, difesa dai più rigidi
tra i teologi protestanti, e l’evidenza scientifica.
Su ben altre
questioni sarebbe andato in crisi lo stesso Darwin, tanto da lasciar passare 24
anni tra il suo famoso viaggio con il brigantino Beagle, fino alle Galapagos, e
la pubblicazione de L’origine della
specie. Anni impiegati non solo a studiare e a verificare, in quella sorta
di casa laboratorio che era la sua magione nel Kent, ma anche a cercare di
governare la propria contraddizione interna. La quale riguardava il contrasto
tra le evidenze scientifiche cui il suo lavoro lo portava e la sua cultura di
uomo religioso e insieme di uomo dell’Ottocento, uomo dell’età vittoriana,
fiduciosa nell’idea di progresso.
Darwin combattè
una lunga lotta interiore in proposito, trovandosi in una di quelle situazioni
senza via d’uscita. Alla fine dovette riconoscere che la sua teoria basilare
del meccanismo evolutivo -la selezione naturale- non fa alcuna affermazione sul
progresso. La selezione naturale spiega solo in che modo gli organismi si
modifichino nel corso del tempo reagendo in modo adattivo ai mutamenti negli
ambienti locali. Di qui il carattere più radicale della sua teoria. «Dopo
aver riflettuto a lungo non posso evitare la convinzione che non esista alcuna
tendenza innata a sviluppi progressivi» (lettera del 4 dicembre 1872).
Importante è il
tema del gradualismo, che oggi studiosi come Stephen Jay Gould, paleontologo e
docente ad Harvard, mettono in discussione o, quantomeno, ripensano. Il
gradualismo comporta che i mutamenti evolutivi avvengano per piccolissimi ed
infinitesimali passi e che anche i grandi cambiamenti, come il sorgere di una
nuova specie, siano frutto dell’accumulo di questi micro-processi di
variazione spontanea e selezione in rapporto all’ambiente. Di per sé non era
un tassello essenziale, ma diventa importante per due valori ideologici che
trascina con sé.
Intanto per Darwin
era anche un modo per opporsi ai meccanismi esterni (come quello di una
creazione continua, da parte della divinità esterna) e di riportare invece la
spiegazione ad elementi esclusivamente terreni. Dall’altro, in seguito,
l’idea di gradualismo è stata abusivamente assunta dalla storiografia come
ulteriore esempio del fatto che in realtà il mondo segue un percorso lineare
verso il meglio: che ci sia o no una divinità, in ogni caso c’è una
direzione nell’evoluzione. Come la società migliore inevitabilmente, così
anche nell’evoluzione, sia pure sulla base di meccanismi interni ed immanenti,
c’è un senso, un cammino dal semplice al complesso, dal rudimentale
all’ottimo.
Proprio qui si
innesta, a partire dali anni ‘70, la revisione proposta da Niles Eldredge e
Sthepen Jay Gould, che va sotto il nome di «equilibri puntuati» (Punctuated
Equilibria) e che suscitò allora polemiche ferocissime, nemmeno oggi, a
vent’anni di distanza, del tutto placate. In estrema e grossolana sintesi, la
tesi dei due studiosi era questa: Darwin e tutti gli evoluzionisti classici
hanno sempre trovato difficoltà a dar conto dell’assenza degli «anelli
mancanti», cioè di fossili intermedi che registrino il passaggio graduale da
una specie ad un’altra. La risposta di solito fornita è che ciò sia dovuto
esclusivamente alla scarsità dei fossili stessi, la cui produzione e
conservazione è assai delicata ed aleatoria. E’ possibile, invece, avanzare
un’altra ipotesi: l’assenza di fossili intermedi non è dovuta al caso, ma
piuttosto al fatto che l’evoluzione non è lenta, graduale e continua, ma, al
contrario,essa intervalla lunghi momenti di stasi con periodi di veloce e rapida
esplosione della specie. Quando si parla di «veloce» o «lento», si deve
intendere, naturalmente, sui tempi geologici.
Ciò comporta
essenzialmente due cose: un’ipotesi riguardante i meccanismi a livello di
specie e un ruolo più accentuato riservato al caso. Due casi tipici sono
l’esplosione del Cambriano, cui è dedicato il volume La
vita meravigliosa, e l’estinzione di massa al termine del Cretaceo, 65
milioni di anni fa. L’esplosione del Cambriano fu, in questa accezione, rapida
e veloce, essendo durata solo 10 milioni di anni, da 530 a 520 myr, e con essa
compaiono per la prima volta nei fossili tutti i phyla moderni. Tutto il libro La
vita meravigliosa è dedicato all’analisi dei ritrovamenti fossili fatti
nel 1909 da Charles Doolittle Walcott alle Burgess Shale, British Columbia.
Senonché, Walcott cercò a tutti i costi -allora era comprensibile- di forzare
quei fossili nei phyla oggi esistenti. Non era così: c’era un proliferare
incredibile di specie, solo pochissime delle quali arrivarono fino a noi. Ma
attenzione: quelli estinti non lo sono perché meno adatti o perfetti, ma
largamente per effetto del caso, che può essere affidato al clima o persino a
dei disastri esterni, come nel caso delle grandi catastrofi, che verosimilmente
sono state prodotte da asteroidi in collisione con la terra. Questa visione
contrasta vistosamente con la freccia del
tempo, con l’idea di progresso verso il meglio, ben descritta in questa
frase dello stesso Walcott:
«nei primi
tempi dominarono i cefalopodi, seguiti dai crostacei, quindi presero
probabilmente la guida i pesci, che però furono speditamente sopravanzati dai
sauri. Questi rettili di terra e di mare prevalsero poi sino all’apparizione
sulla scena dei mammiferi e, dalla successiva lotta per la supremazia, emerse
infine l’uomo. Venne allora l’epoca delle invenzioni: dapprima di utensili
di selce e di osso, di archi e frecce e di ami per la pesca; poi di lance e
scudi, spade e armi da fuoco, fiammiferi, ferrovie, telegrafo elettrico» (manoscritto
del 1892-94).
Al contrario,
secondo Gould, la storia della vita è una storia di eliminazioni di massa,
seguite da differenziazioni all’interno dei pochi ceppi superstiti e non il
racconto convenzionale di un progresso costante verso una sempre maggiore
eccellenza, complessità e diversità. Le iconografie familiari
dell’evoluzione tendono invece tutte -a volte rozzamente, altre volte in modo
più sottile- a rafforzare un’immagine confortevole dell’inevitabilità e
superiorità umana.
Sono due le
metafore di solito preferite, anche nei libri di testo: la
scala della vita: la marcia del progresso è la rappresentazione canonica
dell’evoluzione; il cono della diversità
crescente, iconografia classica, in cui la posizione del tempo si combina
con un giudizio di valore.
La vita in
evoluzione, al contrario, non è né una scala né un albero con pochi rami: è
semmai un cespuglio che si ramifica copiosamente, «continuamente sfrondato
dalla sinistra mietitrice dell’estinzione», non una scala di progresso
prevedibile. E se l’umanità è sorta solo ieri su un ramoscello secondario di
un albero rigolgioso, la vita non può esistere per noi o a causa nostra. «Forse
noi siamo solo un ripensamento, una sorta di accidente cosmico, una decorazione
appesa all’albero di natale dell’evoluzione».
Queste immagini
sono adottate perché alimentano la nostra speranza di un universo dotato di un
significato intrinseco. Anche il racconto primario della Genesi presenta un
mondo vecchio solo di qualche migliaio di anni, abitato da esseri umani con la
sola eccezione dei primi cinque giorni e popolato da creature create a nostro
beneficio e subordinate ai nostri bisogni.
La freccia
del tempo ben si presta a descrivere l’unicità degli eventi storici, pur
marcandoli come distinti. La storia è sequenza irreversibile di eventi
irripetibili. Tutti i momenti narrano una storia di eventi connessi fra loro che
muovono in una direzione. E’ anche la concezione ortodossa della maggior parte
degli occidentali colti di oggi. Richard Morris:
«I popoli
antichi credevano che il tempo avesse un carattere ciclico... Noi pensiamo
invece abitualmente al tempo come a qualcosa che si estende in linea retta nel
passato e nel futuro... Il concetto lineare di tempo ha avuto effetti profondi
sul pensiero occidentale. Senza di esso sarebbe difficile concepire l’idea di
progresso o parlare di evoluzione cosmica o biologica».
Si noti che
nell’idea di freccia del tempo ci sono due concetti: unicità degli eventi e
direzione (così come un vettore). Mircea Eliade (Le
mythe de l’éternel retour) spiega così: la maggior parte delle culture
sono arretrate di fronte alla nozione che nella storia non ci sia nulla di
permanente.
«Ma
l’interesse per l’irreversibilità e la novità della storia è una scoperta
recente nella vita dell’umanità. Al contrario, l’umanità arcaica si
difendeva come poteva contro tutto ciò che la storia comportava di nuovo e di irreversibile».
Così il ritorno
del ciclo del tempo in alcune teorie moderne è benvenuto perché
«la
formulazione in termini moderni di un mito arcaico tradisce almeno il desiderio
di trovare un senso e una giustificazione trans-storica agli avvenimenti storici».
All’altro
estremo, secondo Gould, c’è l’idea di ciclo
del tempo che descrive la «regolarità dell’obbedienza ad una legge, per
stabilire una base di intelligibilità. Gli stati fondamentali sono immanenti
nel tempo, sempre presenti e mai soggetti a mutamento. I moti apparenti sono
parte di cicli che si ripetono, e differenze del passato saranno realtà del
futuro. Il tempo non ha una direzione».
Tra questi due
grandi poli, egli osserva, si bilanciano le tradizioni ebraico-cristiane, tra
storicità degli eventi, come la creazione, il diluvio, l’incarnazione di
Cristo, e la trascendenza al di là del tempo.
Tuttavia,
rifiutare il cono e la scala, la freccia del tempo, non significa
necessariamente che allora è solo caos, caso, e che «Dio gioca a dadi». C’è
una terza possibilità: «ogni ripetizione del film della vita condurrebbe
l’evoluzione su una via completamente diversa da quella intrapresa in realtà.
Ma le differenze conseguenti nell’esito non significano che l’evoluzione sia
priva di significato. Sarebbe altrettanto interpretabile, altrettanto
spiegabile, a posteriori, quanto la vita reale».
Solo la diversità
dei possibili itinerari dimostra che i risultati finali non possono essere
predetti fin dal principio. Ogni passo procede sulla base di precise ragioni, ma
non si può specificare un finale fin dal principio, e nessun finale si
verificherebbe mai una seconda volta nello stesso modo perché ogni via procede
passando per migliaia di fasi improbabili. Se cambia un evento remoto, anche di
pochissimo e in un modo privo di alcuna apparente importanza, l’evoluzione
imboccherà un canale radicalmente diverso. Questa è l’essenza della storia,
la contingenza.
(La scienza -andrà
notato- è stata lenta ad ammettere la storia, considerando ogni invocazione
della storia meno elegante o meno significante di spiegazioni fondate su
immutabili leggi di natura).
SCHEDA
Ernst Mayr, Storia
del pensiero biologico, Bollati Boringhieri, Torino 1992, cap. 9.
La teoria di
Darwin si basa su 5 fatti e 3 inferenze.
Fatti:
1. Tutte le specie
hanno una fertilità potenziale così elevata che crescerebbero
esponenzialmente.
2. Tuttavia,
fluttuazioni a parte, le popolazioni sono stabili.
3. Le risorse
naturali sono limitate e, in un ambiente stabile, sono circa costanti.
®
Inferenza 1: deve esserci una feroce lotta per l’esistenza tra gli individui
di una popolazione, il cui esito è la sopravvivenza di una sola parte, sovente
piccola, della progenie.
4. Non esistono
due individui esattamente uguali: enorme variabilità dietro ogni popolazione.
5. Gran parte di
questa variabilità è ereditabile.
®
Inferenza 2: la sopravvivenza nella lotta per l’esistenza non è casuale, ma
dipende in gran parte dalla costituzione ereditaria degli individui che
sopravvivono. Questa ineguale sopravvivenza è il processo della selezione
naturale.
®
Inferenza 3: nel corso delle generazioni questo processo condurrà a un continuo
cambiamento graduale delle popolazioni, cioè all’evoluzione e alla produzione
di specie nuove.
Cruciale fu
l’introduzione di un modo di pensare per popolazioni, un concetto statistico.
A sua volta,
quella di Darwin è una teoria composta di diverse teorie:
1.
L’evoluzione come tale: il mondo non è costante (fissismo), nascono e
scompaiono le specie. Ma non è pura sostituzione di vecchie con nuove. Né «creazione
permanente».
2.
L’evoluzione per discendenza comune: un unico antenato, per
ramificazioni. C’è una sola origine della vita. Una volta sola. Così si
spiegano tanti aspetti dell’anatomia comparata e, in seguito, l’unicità del
codice genetico. Anche l’uomo viene inserito nell’albero della discendenza
comune.
3.
Gradualità dell’evoluzione: contrasta con il fatto che, ovunque si
osservi la natura, il fatto più apparente è la discontinuità. Darwin spiega
la diversità attraverso il duplice processo di divergenza dei caratteri e di
estinzione. Alle discontinuità, di solito, si attribuiva carattere
soprannaturale.
4.
Speciazione popolazionale.
5.
Selezione naturale, che elimina l’esigenza di qualsiasi teologia
naturale.
(Testo
redatto dall’Autore)
Bibliografia
Stephen J. Gould, La freccia del
tempo, il ciclo del tempo, Feltrinelli, Milano 1989
Stephen J. Gould, La vita
meravigliosa, Feltrinelli, Milano 1990
(I due tra i molti saggi di Gould che più si riferiscono al tema
dell’evoluzione e del tempo)
Niles Eldredge,
Il canarino del minatore, Sperling
& Kupfer, Milano 1995
(Uno dei due autori della teoria degli «equilibri puntuati» analizza la storia
delle estinzioni nella vita del nostro pianeta)
Paolo Rossi, I
segni del tempo. Storia delle Terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico,
Feltrinelli, Milano 1979
Giuseppe Gaudenzi,
Evoluzionismo, Editrice bibliografica,
1995
(Breve saggio divulgativo, ma assai aggiornato e preciso)
Adrian Desmond -
James Moore, Darwin, Bollati
Boringhieri, Torino 1992
(Monumentale biografia di Darwin)
Ernst Mayr, Storia
del pensiero biologico, Bollati Boringhieri, Torino 1992
(Opera fondamentale, scritta da uno dei padri della «Sintesi»
evoluzionista)
Mircea Eliade, Il
mito dell’eterno ritorno (1949), Borla, Assisi 1968
Edgar Morin, Introduzione
al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993
Franco Carlini, Tornano i
DNAsauri, Manifesto Libri, Roma 1993
|
|